Seduto su una scricchiolante sedia di legno, forse a causa del mio incessante dondolio, lo vedo apparire, felice e sorridente come una Pasqua, alla scaletta della peniche-bar Antipode nella quale mi ha dato appuntamento. Capello un po’ scompigliato proprio come nelle foto che si trovano su internet e inattesa camicia a quadrettoni con bretelle in cuoio. Gli faccio un cenno e si avvicina con andatura ballonzolante al mio tavolo.pinacogrammegef_gp

Bonjour Monsieur Perec, mettez-vous à l’aise. Il vous manque un vélo à pignon fixe pour être un parfait bobo, n’est pas ?

Buongiorno signor Minissale, se non le dispiace, preferisco parlare italiano. È da un po’ che non lo pratico e almeno chi ci sta attorno non può capire le connerie che diremo… (risata acuta, ndr). A dire il vero la bici a pignone fisso è a casa, quindi un perfetto hipster lo sono già!

Non sapevo che parlasse italiano. Come lo ha imparato?

Colpa di Italo (Calvino, ndr). Ricordo che quando ci faceva il piacere di preferire le reunioni dell’Oulipo ai bistrot parisieni non si capiva niente del suo francese. Così decisi di imparare l’italiano e fargli da interprete. Non la prese bene, ma in effetti capì che non si può parlare di letteratura parlando come un bambino della scuola maternale.

Evidentemente non ebbe grandi professori di francese?

Se si riferisce a me, io c’ho provato, ma lui, eccetto che con l’italiano, non ci sapeva proprio fare con le lingue.

Leggevo su un giornale di gossip intellettualoidi che lei non è nato lontano da qui.

Trecento metri e ci sta la mia casa natale. Chissà chi ci vive adesso. So che dopo che abbiamo partiti da quella casa, ci abitò una donna polacca con i suoi due figli; il figlio più grande la ereditò e l’affittò a una famiglia italiana. Quando questi lasciarono Parigi per andare a Nizza, la casa fu presa da una coppia di algerini berberi, che ritornarono in Algeria poco tempo dopo la fine della guerra d’Algeria. Il figlio della polacca vendé la casa a un certo signor François Martin, che l’affittò prima ad una coppia, credo francese, e poi, quando i due si lasciarono e lasciarono l’appartamento, la diede ad un suo amico d’infanzia che recentemente è morto. Adesso purtroppo non so più chi ci vive. Dovrei aggiornare il mio elenco.

A proposito di elenchi, i suoi libri ne sono pieni, da cosa nasce questa passione?

Come forse voi sapete, a causa  delle bizzarre idee di Adolfo Hitler, ho perso presto mio padre e mia madre. Ho dunque vissuto un bel po’ di tempo della mia vita con mia zia Esther qui a Parigi. Purtroppo però i miei zii avevano una casa in Normandie. Una di quelle case di campagna dove si va il weekend, per “godersi” la campagna. Il problema era che non avevo un cazzo da fare e a me non piaceva guardare mungere (o addirittura farlo in prima persona) le mucche e neanche cacciare la topa che veniva a farmi visita di tanto in tanto. Nelle case di campagna non ci sono mai libri degni di questa nomea. In quella di mia zia c’erano una dozzina di libri, il corrispottivo degli Harmony giù da voi. Non riuscivo nemmeno ad aprirli, perché le loro copertine, troppo mosce, mi facevano paura. Così l’unica soluzione era ripiegare su un catalogo di articoli del giardinaggio. Ancora adesso ricordo in ordine i prodotti del catalogo, almeno quelli più cari di 100 franchi. E non le parlo dell’arrivo delle prime pagine gialle! Potevo passarci ore ed ore. Uno studio matto e disperatissimo come dite voi italiani. Bon bref, per farla corta la passione è nata dalla noia dell’ammirare la natura.

Non teme di annoiare i lettori con pagine e pagine di liste?

Per prima cosa, io scrivo per soddisfare una mia passione, non quella dei lettori. I lettori e i non-lettori possono non leggermi  o leggermi. Ma prima che prendano questa decisione bisogna che ci sia la pomma della discordia, ovvero il libro. Dunque devo scrivere. E se non catalogo, non listo, non riesco a scrivere. Tra l’altro i miei elenchi sono simpatici. Ed anche funzionali. Devono annoiare quando credo sia giusto annoiare. Devono divertire quando è giusto divertirsi. Devono sorridere quando è giusto sorridere. Devono…

Ok grazie. Ha usato la parola “funzionale”, ed proprio quello che ho pensato leggendo il suo libro Les choses.

Esattamente. Lì non potevo sottrarmi dal parlare del soggetto del libro. Per dire la verità in Les choses ho cercato di inchiestare sul rapporto malato che l’uomo ha con le cose.

Nel 1965 aveva già, ancor prima della rivoluzione del ’68, compreso che qualcosa non andava nella neonata società dei consumi e iper-industrializzata?

Francamente non mi sento precursore, anche perché mi ha molto influenzato il libro di Roland Barthes, Mythologie. E poi ho solo seguito le mie sensasioni. Diciamo che il libro è in parte autobiografico. Ad un certo punto della mia vie mi sono sentito aggredito dagli ogetti, non ero più io a possederli. Ma il contrario.

Come mai l’idea di parlare di una coppia piuttosto che di un singolo individuo?

L’idea di base era parlare di rapporti. Rapporti tra uomini e cose, e come questi influenzano a suo turno quello che c’è tra uomini e uomini, soprattutto a livello societario piuttosto che nei rapporti diretti. Comunque una coppia mi permetteva più variationi. E soprattutto mi obbligava a non mettere l’accento sull’individuo che avrebbe portato tutto su un piano più intimamente psicologico. La coppia mi ha permesso meglio di scandire il tempo, di dimostrare come i suoi ritmi non siano dettati da sogni, passioni o conoscenza ma invece da ciò che si ha e si possiede. In parte i mostri sacri, come Balzac, Zola o Maupassant, lo avevano fatto attraverso le storie di uomini perduti nei meandri delle società e tra il Boulevard des Italiens e quello des Capucins . Ma per l’appunto il fuoco in tali testi era sull’individuo non sui rapporti. Con una coppia era possibile turnare la lente. Io volevo solo osservare discretamente i personaggi, prendere solo qualche “fotogramma” di tanto in tanto della loro vita.

Una coppia che lavora nella pubblicità. La scelta non poteva essere più azzeccata. Che ne pensa?

Ebbè certo. La nostra vita è stata stravolta dal boom economico. È cambiato il nostro modo di interagire con gli altri e con il mondo, quindi con le cose. Ma cosa se non la pubblicità rappresenta la vero mano armata del consumismo. Essa col tempo diventerà il vero e principe stimolo, quello che scandirà le nostra vite. Il resto, ovvero gli stimoli intellettuali o culturali, non potranno che diventare effimeri, mentre i prodotti che sono sponsorizzati dalla TV o negli enormi cartelloni che tappezzano la città saranno il veicolo e allo stesso tempo la metà. A volte mete fisiche dalle forme così attraenti da finirci schiantati con le nostre bagnole (ride, ndr). La cultura, anch’essa diventa  una cose da inserire nello stesso paniere insieme alla Coca-Cola, la cui utilità è solo quella di identificare a quale stato sociale apparteniamo. I protagonisti non “sono” ma sono ciò che possiedono, i luoghi e la gente che frequentano. Citando quasi testualmente Ugo Casiraghi (a proposito de Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel, ndr)

l’individuo diventa incapace di pensiero, nemmeno sfiorato dal dubbio, improduttivo e parassitario, assiso sulle proprie voglie animalesche e banali come su un trono di cartapesta.

La vita bohémien parigina non esisterà più e sarà brutalemente spazzata via dalle corse nei supermarket alla ricerca dell’ultimo detersivo.

Insomma un’umanità apatica, senza più ideali, completamente svuotata di qualunque sogno?

No qui credo che si sbagli. Esiste ancora un sogno, anzi proprio adesso il sogno diventa sempre più importante. Esso è un binario dal quale non possiamo allontanarci. La locomotiva ha la strada segnata Il bufalo può scartare di lato e cadere diceva una canzone di una cantautore che Italo mi fece ascoltare (Buffalo Bill di Francesco De Gregori, ndr). Adesso non siamo più liberi come animali, diventa più difficile cadere inseguendo il sogno, ma il sogno resta lì. Diventa un sogno comune, societario, nel senso che i nostri scopi si omogenizzano. Il sogno è avere. Avere cose e rendere pubblica la cosa. La pubblicità ancora una volta inquadra le nostre vite. È lei che detta cosa fare ed è lei che ci rende momentaneamente e doppiamente felici. Quando siamo l’ogetto della pubblicità ed acquistiamo, quando siamo il tramite e mostriamo le cose. Lo scopo ed il sogno della nostre vite sono ormai solamente i piccoli o grandi ogetti della nostra contemporaneità.

Cosa fare per cercare di limitare questo meccanismo di spersonalizzazione?

Non so, io scrivo romanzi, non saggi. Non ho la risposta, ma posso suggerirvi qualcosa. Qualche giorno fa sono stato ad un festival di filosofia a Modena, per accompagnare il mio amico Marc Augé. Lì oltre aver gustato lambrusco, gnocco fritto e erbasson, e varia altra roba, ho avuto il piacere di ascoltare il filosofo Galimberti. Non entro nel detaglio della sua lezione, ma penso che il suo consiglio principale per fermare la spersonalizzatione sia essenzialmente uno: capire cos’è l’agonia, la battaglia tra la vita e la morte, capire perché c’è l’uomo e non la sua estinzione. Guardare attentamente a questa domanda e farne lo scopo della nostra vita, toglierebbe definitivamente peso a tutti gli altri spersonalizzanti scopi. L’umanità sarebbe meno competitiva e riacquisterebbe la sua perduta umanità.

Vi ringrazio sentitamente

Il y a pas de quoi !

 

Di seguito i video di cui parlava Georges Perec (purtroppo il primo è una piccola intervista, mentre la seconda, la lectio magistralis, seppure completa ha un audio pessimo)

http://video.gelocal.it/gazzettadimodena/dossier/festival-filosofia-2016-sull-agonismo/galimberti-a-festival-filosofia-agonismo-o-agonia/64137/64616