In un articolo apparso stamattina su The Guardian (1), si riflette sulle recenti affermazioni di Jamie Oliver, vero e proprio guru del mangiar sano britannico, secondo cui le fasce meno abbienti della popolazione non sarebbero in grado di recepire il messaggio salutista, continuando a preferire la quantità alla qualità.
A questa affermazione, l’articolista del The Guardian risponde che si tratta di un’impostazione inaccettabile, perché non si tratta, come Oliver vorrebbe far passare, di una questione di cultura o, peggio, di intelligenza, quanto di semplici ragioni economiche.
I bambini poveri non combattono l’obesità, non perché manchi loro la forza di volontà (sebbene possa essere un fattore), ma semplicemente perché i soli cibi che le loro famiglie possono comprare sono spesso pieni di robaccia.
Oliver, insomma, introdurrebbe una questione di classe dove le classi sarebbero separate da questioni economiche e non culturali. Sembra che entrambi si siano persi qualche passaggio di economia politica: una passeggiata su Wikipedia non guasterebbe per rimettere le idee in chiaro. In più, l’articolo si chiude in maniera ancora più criptica e disarmante, affermando che “Non è un problema di classe. È un problema finanziario”.
Aldilà del pastrocchio concettuale in salsa britannica, trovo che entrambi abbiano contribuito ad accendere i riflettori su un aspetto spesso trascurato, ovvero la questione economico-sociale dell’alimentazione. Spesso si vede infatti puntare il dito sulle questioni psicologiche, addossando le responsabilità e le colpe all’individuo, piuttosto che mettere in luce le responsabilità di strategie politiche inique.
Eppure, il loro sforzo per quanto lodevole non basta. Serve un passo ulteriore che ci porti ad indagare con spirito critico queste responsabilità politiche che gravano dietro le incapacità psicologiche. Continuare ad incriminare il singolo individuo, colpevole della sua personale debolezza contro l’attraente universo del gusto, de-criticizza il problema, sottovalutandone la questione primaria, e cioè che la libertà dell’individuo, specie nel rapporto col cibo “potenziato”, è molto relativa. Nella moderna retorica della colpa (strategia di dominio solo apparentemente liquidata dal liberismo), si sente spesso parlare di questi alimenti come di vere e proprie droghe. Si tratta tuttavia di un errore concettuale che serve, ancora una volta, a scaricare la colpa ai consumatori, stigmatizzandoli come “drogati”. La questione è tuttavia inversa: esistono dei circuti neurali che ci orientano verso la ricerca di zucchero e sale, perché vitali, e che nell’orientarci ci rendono gradevole questi due composti. Sono le droghe che vanno a stimolare quegli stessi circuiti dopaminergici, non il contrario. Si tratta di una mistificazione che mi spiego soltanto con la volontà, da parte di chi la divulga, di drammatizzare la questione e gravare ogni responsabilità sul consumatore.
Nella scelta di insaporire i cibi con sale o con glutammato monosodico (il dado per intenderci, responsabile del gusto umami che conferisce la sapidità ai cibi), così come nell’eccesso di zuccheri in snack o bevande, si nasconde una precisa volontà commerciale che, proprio iperattivando quei circuiti nati per finalità fisiologiche, punta alla creazione del craving.
Sale, zucchero e glutammato monosodico sono sostanze presenti negli alimenti in natura, tuttavia non in quantità tali da poter scatenare questa reazione. È la tecnica alimentare che, affinandosi progressivamente, ha ideato le migliori strategie per rendere i cibi “irresistibili”.
Tornando quindi al discorso del nostro paladino del mangiar sano e all’articolo sul The Guardian, mi preme aggiungere come la questione di classe, seppur valida e meritevole di considerazione, non spieghi le vere radici del problema, che invece va cercato in un contesto sociale-lavorativo frammentario e frustrante, dove l’appagamento delle forme più elementari del gusto (quello alimentare, ma non solo) appaiono come le sole forme di “riscatto” e fuga dalla realtà. La società moderna, appare sempre più chiaro, non potrebbe reggere un minuto di più senza le droghe che, ciascuno a suo modo, assume quotidianamente per tirare avanti. La questione di classe, pur esistendo, appare semplicistica e obsoleta nel tentativo di spiegare la questione, così come semplicistico e oltremodo connivente appare l’invito di quell’infinita schiera di salutisti e nutrizionisti campioni del mangiar bene. Occorre piuttosto una diversa impostazione della vita e degli spazi sociali, uscire fuori dalle dinamiche di frustrazione che tutto l’apparato lavorativo e sociale ci produce, ma per questo occorrerebbe la forza di una comunità coordinata e lucida che rivendica il cambiamento.
Ma, ad oggi, quello che tratteggio a grandi linee mi sembra uno scenario improbabile, essendo gli schieramenti quanto mai frammentari: da una parte i salutisti pienamente “realizzati” nel loro (infernale) nirvana, non pensano più al cambiamento, sanno di essere puri e con la coscienza a posto. Tutto il resto degli impuri, invece, o è troppo pigro e soddisfatto per immaginare il cambiamento, o lo immagina solo nella forma del suddetto nirvana, una meta ideale che appare così lontana da paralizzare.