Arrivo nel pomeriggio all’indirizzo che mi aveva inviato via mail. Trovo un cancello verde semi-socchiuso, aprendo, scopro un vialetto fiorito dal quale si accede a delle casette a schiera. Arrivo alla quinta casa, lo trovo lì ad accogliermi in tenuta casalinga: tuta acetata, felpa dell’Ungheria e babouche. Sorridente mi stringe la mano e mi propone di bere un caffè.
Con piacere, dico io
Sono costretto a fare la moka da 6 tazze, mi dice MM, purtroppo da quando uso queste cucine ad induzione, tutte le vecchie caffettiere ormai non funzionano più, latta erano e latta son tornate. Se devo dirle la verità, l’induzione mi ha liberato dall’obbligo di bere caffè al mattino.
Personalmente bevo caffè per piacere piuttosto che per svegliarmi.
Ultimamente anch’io, mi sono convinto che serva a poco come eccitante. Ricordo che il primo anno che iniziai a frequentare l’università, con mio cugino, che era anche mio collega, decidemmo di lanciare un cineforum sulla Nouvelle Vague. Il cineforum non durò molto, giusto il primo tempo di un film. Una sera, dopo le lezioni universitarie, iniziammo un film di Truffaut, Jules et Jim se non ricordo male. Dieci minuti dopo l’inizio del film, lui cominciò a russare senza pudore e pure la mia palpebra diventava un macigno. Un grido, credo nel film che, tra l’altro, ricordo abbastanza soporifero, ci svegliò e decidemmo di prepararci un caffè che avrebbe dovuto accompagnarci nella nostra prima avventura francese. Servì a poco. Completammo il film in uno stato d’incoscienza. La mia conoscenza della Nouvelle Vague è circoscritta ai pochi attimi di lucidità di quella sera e alla colonna sonora di Ascensore per il patibolo, film che vidi qualche anno dopo nel secondo tentativo (fallito) di lanciare un cineforum sulla Nouvelle Vague. C’è da dire che in quei giorni anche il più potente dei caffè era in partenza sconfitto. La nostra sveglia suonava prima delle sei al mattino.
Come mai così presto?
Le lezioni universitarie iniziavano alle otto. A quei tempi eravamo pendolari e, se volevamo arrivare puntuali, eravamo obbligati a prendere la LGV delle sei.
La LGV?
La littorina à grande vitesse, come diremmo qui nell’Exagone. (MM ridacchia). Per un anno la mia sveglia fu alle cinque e mezza. Ma ho un piacevole ricordo di quei giorni. Non proprio della sveglia, ma della sensazione che provavo quando mi recavo alla stazione dei treni. Il paese dormiva ed era ancora buio pesto. Qualche camion passava di tanto in tanto, per il resto solo i miei passi risuonavano sulla strada. In quei momenti, vivevo tra l’orgoglio e il compiacimento di essere fra i pochi già svegli. Mi sentivo come se stessi compiendo qualcosa di unico, era un momento mio e mi sentivo padrone del tempo e dello spazio. Gli altri, inconsapevoli, dormivano. Ma purtroppo tutto finiva poco dopo, all’aurora la quiete della notte faceva spazio al chiasso mattutino.
Il chiasso mattutino… e le lezioni. Cosa studiava?
Mi iscrissi a Fisica.
Perché?
Prima di risponderle devo constatare che è una delle poche persone che non ha sgranato gli occhi quando ha saputo che sono un fisico.
Non l’ho fatto perché pur’io m’iscrissi a Fisica, ma solo per un anno. Poi virai verso Filosofia.
Perché?
In verità sono stato il primo a porle la domanda…
Nel mio caso, fu una scelta che presi quando ero bambino. Ricordo che dissi a mia madre, avrò avuto cinque o sei anni, che sarei diventato un astrofisico. Ai tempi non sapevo cosa significasse, ma per qualche ragione avevo deciso così. E così, col passare degli anni, il mio sogno infantile diventava sempre più concreto. Giornalmente mi pongo tante domande, ma paradossalmente non mi sono mai chiesto, in maniera seria, cosa volessi fare da grande. Ho sempre dato per scontato che sarei diventato un astrofisico. In verità, non l’ho mai neppure considerato un sogno, ma il naturale percorso della mia vita. Un po’ come una tappa necessaria tra la nascita e la morte.
Quindi rimpiange di aver studiato Fisica?
Affatto. Cioè avrei desiderato studiare anche altro, per esempio geologia o anche filosofia. A proposito come mai lasciò fisica per filosofia?
Al primo anno non capii nulla. L’impatto con la matematica fu complicato, e avevo la sensazione che la matematica sarebbe sempre stata un problema per me. Tra l’altro, avevo un professore che ci dissuadeva nel continuare con gli studi scientifici visto che gli sbocchi erano pochi. Così mi riorientai verso filosofia.
Dove si sa, gli sbocchi sono illimitati (MM ride). Posso chiederle che lavoro fa adesso?
Lezioni private di storia e filosofia; redazioni tesi lauree e poi ho pure un blog abbastanza seguito, si chiama Nowhereville. Non sono ai livelli di Aranzulla, ma con i banner pubblicitari riesco a vivere dignitosamente. Tornando indietro, credo che avrei scelto altri studi, non so giornalismo, agronomia o qualcosa che ha a che vedere con il campo umanitario. Lei è soddisfatto della sua scelta?
Tutto sommato il lavoro che faccio e la fisica mi soddisfano nel quotidiano. Come le dicevo, mi pongo spesso domande, di ogni genere, forse è un modo di controllare la realtà, realtà che mi sfugge di mano. Vedo la realtà come dell’acqua, acqua che vuole andarsene, infiltrarsi, permeare, evaporare, insomma sparire per non essere presa. La fisica mi permette giornalmente di strutturare la realtà, è un po’ come un porta cubetti di ghiaccio. L’acqua ghiacciata resta lì e per qualche momento ho l’impressione che sia mia. Il problema è che basta un po’ di tempo e tutto svanisce, il ghiaccio si squaglia, tutto diventa liquido e libero di prendere la sua strada.
Insomma, la fisica per rendere solida una realtà baumaniana?
Non penso che ci sia davvero un nesso tra la liquidità di cui parlo io e quella di Baumann. O forse sì, comunque l’ho letto troppo poco per avere un’idea omogenea del suo pensiero. Ricordo che l’ho pure ascoltato qualche anno fa, forse l’anno prima che morisse, al festival della filosofia, a Carpi. Ma non ricordo una singola parola di quello che disse. Ricordo solo che accanto a me era seduta una ragazza molto carina. E che trascorsi tutto il tempo del suo seminario cercando di mostrarmi interessato. Avevo la barba piuttosto lunga, più o meno come adesso, la accarezzavo per apparire allo stesso tempo sensuale e pensoso, annuivo con la testa e di tanto in tanto facevo gesti con le mani come a creare un legame tra il discorso di Bauman e i miei pensieri. E con la coda dell’occhio cercavo un’apertura nella ragazza seduta accanto a me. Che non venne. Alla fine del seminario arrivò solo il richiamo dei miei amici, era tempo di rientrare a casa.
Possiamo dire che Bauman non sia proprio un suo riferimento culturale?
Di primo acchito non lo definirei tale, ma in verità non lo so. Personalmente trovo piuttosto complicato parlare dei miei riferimenti culturali. In effetti, se qualcuno diventa un riferimento significa che in qualche modo il suo pensiero è diventato mio, mi rivedo nelle sue parole. In quest’atto di inglobamento si frantuma la barriera che c’era tra le mie idee ed il suo pensiero, che è diventato a tutti gli effetti parte della mia conoscenza. A quel punto diviene complicato capire di cosa e a chi sono debitore. Ma come mai insiste su Bauman?
Scrivo una tesi di dottorato su di lui, o, più in particolare, sulla percezione che la società ha di lui. In pratica la stavo usando come cavia. (io e MM ridiamo)
Adesso capisco la ragione della sua visita.
No in verità mi trovavo in Provenza in vacanza, sa la lavanda e le cicale provenzali sono un must del viaggiatore moderno. Essendo qui a Marsiglia mi sono detto che sarebbe stato simpatico passare a trovarla. L’ho conosciuta grazie al suo blog, seguo la rubrica di divulgazione “Ti faccio un grafico” , mi diverte molto e spesso scopro cose a cui non avevo mai pensato.
La ringrazio. Effettivamente è quello lo scopo, essere divertente e giusto un po’ divulgativa. La definirei una rubrica di scienza gonza… “Scienza gonza” magari raccoglierò gli articoli di Ti faccio un grafico e lo userò come titolo del libro. In ogni caso fa piacere che ci sia almeno un lettore.
Siamo almeno in due, mio cugino la segue pure. E sono sicuro che approverebbe anche il titolo del libro. Tornando a dov’eravamo prima. Se dovesse citare qualcuno a cui è culturalmente debitore?
Il primo che viene in mente è Menandro, e il suo Dyscolos. Ero al secondo liceo e la nostra professoressa di Italiano (a cui tra l’altro sono debitore per avermi fatto conoscere l’opera), ci propose di mettere in scena il misantropo di Menandro. Per noi era una proposta troppo allettante per trascorrere dei pomeriggi di non-studio giustificato. Tutta la classe accettò con entusiasmo. Mi fu dato il ruolo di Cnemone, il misantropo per l’appunto. Ricordo ancora il monologo che tanto mi colpì, … aspetti prendo il libro
Ma ho commesso un solo errore, forse, quando credevo di essere autosufficiente, io solo tra tutti, e di non avere bisogno di nessuno. Ma ora che ho visto che la morte ti può colpire all’improvviso e senza che te lo aspetti, mi sono accorto che non andava bene ciò che pensavo allora; in effetti è necessario che vi sia – e che sia disponibile – una persona che
possa aiutarti in ogni circostanza. E io invece, per Efesto, fino a tal punto avevo la mente accecata nel vedere i modi di vita di ciascuno e i raggiri che escogitano per trovare il modo di fare guadagni, tanto da non immaginare neppure che potesse esserci qualcuno tra tutti capace di volere il bene altrui. Questo era il mio ostacolo. […] Però questo devi saperlo, figliolo, voglio dirti ancora qualcosa riguardo a me e al mio carattere: se tutti fossero come me, non esisterebbero i tribunali, non si trascinerebbero in prigione gli uni con gli altri, non ci sarebbe la guerra e ciascuno sarebbe felice di avere quanto basta per vivere.
In questo monologo si racchiude, riassumendo, il motivo per cui Menandro divenne un riferimento: aveva posto una domanda che tuttora è irrisolta per me. Il rendersi conto che la vita sociale è irrinunciabile da un lato, e dall’altro l’ascetismo “morale”, ispirato dalla voglia di evitare il male e sostenuto da un’estrema onestà civica. Secondo Cnemone, visto che negli uomini sociali esiste tale componente maligna sviluppata in seno alla società stessa, l’unico modo per estirpare il male è la disgregazione della vita associativa. Ricordo che ero davvero entrato nella parte, ero diventato così tanto misantropo che, improvvisando durante la messa in scena, zittivo i miei compagni ed imprecavo invocando Dei greci sconosciuti.
Immagino che, se adesso siamo seduti qui, la sua carriera da attore teatrale non abbia avuto un seguito.
In teoria sì, ha avuto uno sviluppo intimo, spesso mi maschero da qualcun altro e provo ad immaginare cosa pensi quella persona, costruisco monologhi, insomma faccio delle Fantainterviste, come quelle che le piacciono tanto a lei. In pratica no, anche se spesso spero che qualcuno mi chiami per recitare nel suo spettacolo. In verità, mi sarebbe piaciuto diventare un attore di teatro, ma non ho mai avuto il coraggio di percorrere quella strada. Ho sempre preferito, nella misura del possibile, vivere in potenza, vivere per poter raccontare un giorno “se avessi fatto”. Battiato dice in una delle sue canzoni “ne abbiamo avuto di occasioni, perdendole, non rimpiangerle mai“. Sì, non rimpiangerle perché è più facile vivere cullato dai sogni piuttosto che pungolato dai fallimenti delle nostre storie. Quindi meglio perderle le occasioni e costruirci sopra i castelli che preferiamo. Insomma, penso che agire sia un modo per dirsi finiti, un modo per arginare la propria vita. Mentre vivere in potenza ti permette di scrivere come e quando vuoi la tua sinfonia, cancellarla e riscriverla il giorno dopo. E la cosa che adoro pensare è che ogni occasione perduta è una vita in attesa di essere immaginata, un ramo che posso far crescere a mio piacimento. Boh, a volte penso che probabilmente questa filosofia dell’attesa sia solo un modo per giustificare la mia pigrizia o la paura di quelle montagne che non ho mai scalato.
Un’ultima domanda. Come deve essere letta la vostra felpa? Un sostegno all’attuale situazione politica ungherese?
(MM ride). Ah, no per niente. Questa felpa è un souvenir di un festival musicale a Budapest, credo fosse lo Sziget 2007. Il mio guardaroba ha sempre vissuto con un ventennio di ritardo. Adesso un’ultima domanda mia; che ne farà di tutti gli appunti che ha preso durante questa discussione.
Non so, magari quando non avrò nulla da scrivere sul blog, cercherò di simulare una fantaintervista con lei. (ridacchiamo)
In tal caso tolga la parte sui miei progetti futuri, non vorrei sembrare un narciso megalomane. E non metta neppure quella in cui parlo della mia compagna e di mia madre, potrebbe essere fonte di infinite noie. Se vuole un consiglio per la sua vacanza non dimentichi di visitare Brieux en Provence. A presto
Grazie per il consiglio. È stato un piacere, a presto.
Semplicemente straordinario! Mi è piaciuta molto questa idea di una intervista immaginaria per viaggiare nel tuo passato e in momenti importanti della tua vita. Una scrittura chiara ed elegante che con levità descrive, approfondisce, pone domande a cui risponde solo a metà, sembra divagare volutamente quando invece il lettore si aspetta una risposta. Ho sorriso, ho pensato, ho ricordato durante la lettura e questo succede in genere con gli scrittori veri e bravi.