Voglio condividere con voi qualcosa che ho imparato. La disegnerò sulla lavagna dietro di me così potrete seguirla più facilmente [traccia una linea verticale sulla lavagna]. Questo è l’asse F-S: fortuna-sfortuna. Morte e terribile povertà, malattia quaggiù – grande prosperità, meravigliosa salute lassù. Il vostro stato medio di cose qui nel mezzo [indica rispettivamente la parte inferiore, superiore e centrale della linea]. Questo è l’asse I-F. I come inizio, F come fine, ma potrei usare anche E come entropia. Ok. Non tutte le storie sono così semplici. Non tutte le storie hanno una forma molto semplice, carina e lineare che anche un computer può capire [disegna una linea orizzontale che si estende dal centro dell’asse F-S]. Ora lascia che ti dia un consiglio di marketing. Le persone che possono permettersi di comprare libri e riviste e andare al cinema non amano sentire parlare di persone che sono povere o malate, quindi inizia la tua storia qui [indica la parte superiore dell’asse F-S]. Vedrete questa storia più e più volte. La gente la ama e non è protetta da copyright. La storia è “L’uomo nella buca”, ma la storia non deve necessariamente riguardare un uomo o una buca. È: Qualcuno si mette nei guai, ne esce di nuovo [disegna la linea A]. Non è casuale che la linea finisca più in alto di dove è iniziata. Questo è incoraggiante per i lettori.
Tratto da “Un uomo senza patria” di Kurt Vonnegut.
Il libro di Vonnegut, quello si che è coperto da copyright, e quindi non posso ricopiare qui gli altri spassosi grafici*, quindi ho deciso di rimboccarmi le maniche e disegnare la forma di qualche storia. La scelta delle quattro storie qui giù è casuale e razionale allo stesso tempo (un po’ come il cento per cento delle nostre azioni/gesti/pensieri quotidiane/i), se avete voglia di un grafico in particolare, lasciatemi un commento, leggerò il libro e in men che non si dica la mia arte grafica appagherà il vostro ardente desiderio.
Oblomov, Ivan Gontcharov
Il sottotitolo dovrebbe essere senza dubbio “una vita al minimo”. Tutto comincia piuttosto bene, un uomo, Oblomov, proprietario terriero, che non ha bisogno di lavorare, con abbastanza denaro nelle tasche, non sembrerebbe per niente male come inizio. Nel tipico storytelling americano/occidentale, tale inizio sarebbe sicuramente seguito da qualcosa di tragico, che so io, un uragano che spazia via le colture nelle proprietà oblomoviane, qualcosa che spezzi le gambe per poter in seguito raccontare la rinascita, un po’ come “l’uomo nella buca”. Invece Gontcharov, figlio del suo tempo e della sua Russia, ci racconta un’altra storia, in cui non c’è spazio né per rinascite né per tonfi. Solo per una vita al minimo. Un racconto con pochi sussulti. Oblomov ogni tanto tenta di non essere prigioniero di sé stesso. S’innamora di Olga, ma con la sua indolenza la porta ad allontanarsi. Si dispera. Ma per poco, gli manca il tempo. L’ozio è un lavoro che richiede tanto lavoro. Chi di voi riuscirebbe a stare un’ora senza fare niente. Ma per niente, dico niente. Non, stare lì a cincischiare col telefono o guardare passivamente la tv. Dico niente che riempia il vuoto, il silenzio esterno e quello interno, niente che blocchi lo sguardo interiore. Oblomov riesce a svuotare lo spazio immanente e trascendente coll’ozio disteso sul suo, spero comodo, divano. Un uomo che rifiuta la vita infastidito da tutto ciò che è complicato. Un uomo che disdegna l’amore per la paura della passione funesta. Un uomo giusto, un uomo probo, un idiota dostoievskiano? O un uomo che non vuole affannarsi per non essere travolto da ulteriori affanni? Un manifesto della non-crescita. O forse proprio della decrescita, come indica il grafico. Una decrescita non ideologica probabilmente, una scelta mirata ad uscire di scena senza lasciare orme di cui pentirsi un minuto dopo.
Il deserto dei tartari, Dino Buzzati
Giovanni Drogo, divenuto ufficiale, viene assegnato come prima nomina alla Fortezza Bastiani. Un cauto ottimismo ci farebbe pensare che le cose non si mettono proprio male per il nostro Giovanni. Un piccolo dettaglio: la Fortezza è l’ultimo avamposto del Regno, domina il desolato”deserto dei Tartari”, teatro di rovinose incursioni da parte dei nemici. Tuttavia, da anni nessuna minaccia è più apparsa su quel fronte; la Fortezza è ormai una rocca solitaria e dimenticata. Dopo un viaggio a cavallo di più giorni, Drogo ha una cattiva impressione della fortezza, voler chiedere l’avvicinamento alla città ma i superiori lo invitano ad attendere fino alla visita medica periodica. I giorni passano e Drogo subisce il fascino degli immensi nordici deserti. Come i suoi compagni comincia a vivere per una sola fede: vedere apparire all’orizzonte, contro le aspettative di tutti, i Tartari, combatterli e diventare eroe. Sarebbe l’unica via per dare un senso al tempo speso ai margini del mondo. Il selvaggio settentrione lo ammalia, decide di non chiedere il trasferimento. Un giorno sembra che ciò che tutti attendono stia per accadere: colonne di uomini armati marciano verso la fortezza da da settentrione. Questo serpentone crea fermento, i soldati sognano battaglia e gloria (sì, è quella specie di picco sghembo che ho disegnato, immagino così il fermento, avrei potuto disegnarlo più alto, ma in fin dei conti tutti, i soldati e me compreso, sapevamo prima di vederlo che il serpentone era solo un fantastico abbaglio), ma si scopre che non sono tartari, bensì soldati del Regno confinante che vengono a definire la linea di frontiera. Tutto ritorna alla stasi. Drogo torna in città, ma ormai quella non è più casa sua. Ritorna alla Fortezza e ai suoi ritmi immutabili. Gli anni passano, i compagni muoiono, diventa maggiore e vicecomandante della Fortezza. Un giorno sembra che ciò che tutti attendono stia per accadere: colonne di uomini armati marciano verso la fortezza da da settentrione. Questa volta sembrano davvero i Tartari. Nel fermento, più impetuoso rispetto alla volta precedente, Drogo viene evacuato a causa di una malattia al fegato che lo debilita da mesi. Tutto sembra andare per il paggio. Drogo si ritrova a morire in una stanza di un’anonima locanda, ma stranamente non c’è spazio per la negatività, solo per una serena calma. Drogo si rende conto in punto di morte di aver raggiunto il vero obiettivo della sua vita, ovvero morire con dignità, sconfiggere la paura di morire, piuttosto che i Tartari. Adesso che l’obiettivo è raggiunto, che il bandolo della matassa è stato trovato, non ha più senso vivere. Una storia, quella di Drogo, normale, un sogno lontano, posto così lontano da non poterlo raggiungere prima della morte. Un obiettivo posto così lontano per sentirsi libero di non scegliere. Per sentirsi libero di riflettere. Una vita di attesa del giorno seguente. Una storia del tempo e del suo annullamento (la morte). Una storia, quella di Drogo, normale, fin troppo normale.
Rayuela, Julio Cortázar
“Rayuela” è uno di quei libri del XX secolo a cui si ritorna ancora più stupiti della prima volta, come, chessoio, a Venezia. I suoi personaggi tra cielo e terra, esposti alle risonanze delle maree, non arano o seminano o raccolgono: viaggiano per scoprire i confini del mondo e essendo questo mondo la nostra vita, è intorno a noi che navigano. Tutto si muove nel suo riflesso romantico, la finzione si trasforma in una ricerca, il romanzo in un saggio, un tratto di saggezza Zen in una risata, l’eroe, Horacio Oliveira, nel suo doppio, Traveler, uno a Parigi, l’altro a Buenos Aires.
Il jazz, gli amici, l’amore folle – di una donna, la Sibilla, in un’altra, la stessa, Talita -, la poesia salveranno Oliveira dal fallimento del mondo? Forse… perché “Rayuela” offre diverse entrate e uscite. Un manuale di istruzioni ci suggerisce di scegliere tra una lettura sequenziale, “pergamena cinese” che si svolgerà davanti a noi, e una seconda, attiva, dove saltando di casella in casella compiremo un’altra straordinaria circumnavigazione. Il maestro di questo gioco è Morelli, lo scrittore di cui Julio Cortázar è il sosia. Cerca di non tradire nulla quando scrive ed è per questo che comincia a consegnare la prosa della sua vecchiaia, a “descrutinizzare” come dice lui. Di una giovinezza e di una libertà sconosciute, Rayuela ci porta quasi simultaneamente in paradiso dove possiamo riposare e all’inferno dove tutto ricomincia. Coinvolto nel gioco (di caccia al tesoro) elaborato dallo scrittore, il lettore fa parte di quest’opera labirintica. Ne diventa il vero eroe. Un cambiamento di prospettiva determinato dalla volontà stessa di Cortázar e del suo doppio romanzesco, Morelli, lo scrittore preferito di Horacio, le cui teorie letterarie sono simili a “Rayuela” in un gioco di mise en abyme: “(…) il vero e unico personaggio che mi interessa è il lettore, in quanto un po’ di quello che scrivo deve servire a modificarlo, a fargli cambiare posizione, a disorientarlo, ad alienarlo”, scrive Morelli. Attraverso un gioco di specchi ipersofisticato, ogni lettore di “Rayuela” si trova trasfigurato in un personaggio romantico al quale può dedicare il proprio culto. Una storia in cui perdersi e ritrovarsi, voltando pagina.
Cent’anni di Solitudine, Gabriel Garcia Marquez
Mi sono spesso chiesto quale fosse la ragione dell’antisemitismo, trovando per lo più risposte sommarie. Un giorno, Paul Shepard, nel suo “Coming home to the Pleistocene”, mi ha dato una risposta meno sommaria del solito. I pastori ebrei furono tracotanti: ebbero l’ardire di creare una rottura con l’importanza data al luogo scoprendo un dio maschio, presente ovunque – anche se non è di questo mondo – e che li accompagna nei loro spostamenti. Rifiutando i misteri del femminile ciclico (morte e rinascita), eliminando il fattore moderatore rappresentato dalla madre (madre terra), gli ebrei, ma anche i greci, hanno profanato la natura e portato l’umanità nel tempo lineare della storia. Col dio maschio onnipresente, avevano creato la linea del tempo. Avevano creato uno stato di separazione dagli antenati e dalle altre specie, imponendo uno sradicamento permanente. Essi assicurano l’emergere di un mondo patriarcale, popolato da guerrieri eroici, che assicura la vittoria della trascendenza sul naturale e sull’indigeno, la supremazia dell’astrazione sul regno del concreto. Nasce così il dogma centrale dell’Occidente che stabilisce una separazione tra i regni spirituali e i fenomeni naturali. Ma Márquez non ama la linearità, sovverte questo schema. Il suo realismo magico è proprio la sintesi tra il regno spirituale e la natura. Il Panta Rei si trasforma per diventare un infinito ritorno. “Cent’anni di Solitudine” ci parla dei Buendìa, di sette generazioni Buendìa, di Buendìa che muoiono, di Buendìa che nascono, di Buendìa che ritornano. Nel suo mondo magico ma reale “Cent’anni di Solitudine” è il teatro di un labile confine tra un Buendìa morto ed un Buendìa vivo, tra un Buendìa solo ed un Buendìa in famiglia. I Buendìa sono variazioni sul tema familiare. Appaiano a Macondo ma van via per chiudere il cerchio. I Buendìa sono un’esemplare risposta alla tracotanza che fu dei pastori ebrei. In “Cent’anni di Solitudine”, nel realismo magico non esista la fine, solo una finalità, il ritorno.
*e spero che Seven Stories Press non capiti sul blog e mi denunci per aver tradotto e ricopiato parte del libro; se volete soddisfare la vostra curiosità ecco gli altri grafici, oppure comprate il libro, oppure scrivetemi, una soluzione la posso trovare
Straordinaria la tua prosa.: apparentemente facile, ludica e straordinariamente complessa. Complimenti Marco