Ce que je sais à soixante, je le savais aussi bien à vingt.

Quarante ans d’un long, d’un superflu travail de vérification…



E.M. Cioran

La prima volta che infilai l’ago nell’avambraccio avrò avuto venticinque anni.
Suonavo il sax da dio a quel tempo, non solo il sax, qualunque cosa permettesse di essere soffiata e leggermente percossa dalle miei falangi, falangine, falangette non poteva considerarsi esente dal mio tocco vellutato e angelico.
Ero arrogante a quel tempo e la modestia non si è aggiunta in seguito alla lista delle mie qualità. Il fatto che suonassi come un angelo, scusate le frasi fatte, non ho mica idea di come suonino gli angeli, ma dio non permetterebbe mai che gli angeli spernacchino, il fatto, dicevo, di suonare come pochi, era attestato dalla mancanza di giornate libere, dal succedersi ininterrotto di concerti in buchi a Nord delle città, in teatri eleganti o in apparizioni in nuovi vinili di chicchessia.

La prima dose me la iniettai a quella festa piena di personaggi disparati, da romanzo fantastico dell’ottocento avvolto dai fumi dell’oppio.
I fumi dell’oppio non erano solo metaforici, si respirava già dalla strada quella fragranza dolciastra che a me ricordava le torte di mele della vicina.
Fu quel poeta di cui non ricordo il nome, e neppure il cognome, finiva in berg o stein o david, ok altri luoghi comuni sugli ebrei e i loro cognomi tra il biblico e il tedesco maccheronico.
Ma che volete, sono cresciuto tra i luoghi comuni dei bianchi su noi neri, negri, ben dotati, il ritmo nel sangue, il canto degli schiavi, il cotone tra le dita…Quando dicevano a mia madre che il suo posto nell’autobus era riservato a qualcun altro avrei usato il sax come un bastone, altro che melodie per far palpare a vicenda le coppiette frustate…

Quel poeta era bravo, un po’ strano, occhi grandi color carbone, enormi occhiali neri e quel sorriso che sembrava avesse il doppio dei denti, tanto erano grandi. A scuola lo avranno picchiato non so quante volte, forse anche io lo avrei fatto, devo ammetterlo.
Era loquace, quasi più di me, e parlava con quella voce quasi femminile, sottile, ti fissava dritto incatenando le tue pupille alle sue, cosi che il tuo sguardo non potesse voltarsi neanche a sbirciare quei bei culi di cui la festa ad un certo punto sembrava stracolma.
Ero stato invitato in quello strano posto a metà tra una libreria ed una bisca per dilettare il pubblico con la mia musica, dilettare si fa per dire, io e quei tre scellerati che mi stavano dietro avevamo deciso, o meglio non avevamo proprio deciso, un giorno in mezzo ad una prova per una serata di gala, il mio sax comincio a strillare istericamente ed io non feci niente per non assecondarlo.
Dedie, Dan e Filmord, rispettivamente basso, piano e batteria, si guardarono straniti per un attimo, ma io ero già lontano ed allora fecero uno scatto e mi riacciuffarono; i loro strumenti strillarono ancora più forte, batterono quella marcia caotica e potente.

Comunque il perché e percome ve lo racconto un’altra volta, a volte divago, ma non lo faccio per mettere in difficoltà nessuno, è la mia mente che non sta ferma un attimo e poi alla mia età il tempo sembra essersi appiattito, a volte mi chiedo se ho davvero vissuto, a volte come faccio ad essere ancora vivo.
Quindi, la festa, io ero lì per suonare, e questo poeta che parlava tanto, non mi lasciava andare. Cominciò a raccontare delle sue visioni mistiche sotto l’effetto di qualche sostanza dal nome complicato, la realtà che non è più la stessa, il velo di Maja ormai tirato giù, e così via.
Adesso vien da ridere, ma in quegli anni nessuno sapeva di cosa quel tipo bizzarro stesse parlando, non ci voleva molto per impressionarci.
Ed io quella sera mi feci impressionare, tanto che la mi vita forse non fu più la stessa, o forse sarebbe andata così lo stesso, bah, chi lo sa, ho giocato tante volte al gioco dei se e se non avessi, ed ogni volta sono tornato al principio, sapete come al gioco dell’oca, il dado ti porta sempre alla cartella ‘indietro di 3 caselle’. La mia mente si muove avanti ed indietro di 3 caselle, e di continuo riempie lo spazio tra l’inizio e la fine di nuove parole.
Aveva con sé un po’ di roba e mi fece cenno di seguirlo nella stanza accanto, un magazzino zeppo di libri e fogli. Cominciò a riscaldare una polvere di un bianco sporco, giallastro. Il fuoco sotto il cucchiaio ossidato dal contatto frequente della fiamma, trasformava la polvere velocemente, che cominciò a liquefarsi e spumare.
Tirò fuori una siringa e succhiò dentro quello che ormai era un fluido quasi trasparente, lattiginoso, e mi ordinò di stringermi la cintura subito sopra il gomito, più stretta che potessi.
Lo feci senza emettere suono, ipnotizzato dai suoi movimenti, da quel rito che mi incuteva eccitazione e timore.
Sentivo le vene ingrossare nell’avambraccio, una in particolare sembrava volesse rompere quella parete sottile in cui era normalmente rinchiusa. La pelle, la mia pelle era sull’orlo di una rottura, sotto la pressione del sangue, il battito diventò udibile, o così lo ricordo. Un tam tam che si spandeva per la stanza senza controllo ma regolare e preciso come nessuno batterista avrebbe potuto, neanche quel metronomo umano che mi seguiva ogni sera sul palco.

Li chiamavano così, ‘metronomo’, ‘madreperla’ e ‘baffetto’, e loro ‘loco’ perché un po’ fuori di testa lo ero già a quel tempo.
Il poeta, qual’era il nome, ah si, aspetta. Cavolo che scherzi che fa la memoria, ci penso da mezz’ora k…berg, klanberg, KLEINBERG, si sono sicuro, piccola montagna, ricordo anche che lo presi in giro pensando di essere divertente.
Kleinberg con la siringa in mano mi fissò, mi immobilizzai e con un movimento esatto e secco, mi trafisse la vena con l’ago, premette lo stantuffo.
Ricordo distintamente il sangue diffondere nella siringa, che intanto si svuotava di quella sostanza misteriosa, i due colori mischiarsi, come acque di due fiumi che si incontrano e si compenetrano.
Quella sensazione non la dimenticherò mai, fu la prima di innumerevoli altre volte, ma poi mi ci abituai. Sentire quel gelido flusso entrarti in circolo, gelido nonostante il calore del liquido, sentire i muscoli diventare rigidi come corde tese, e poi rilassarsi immediatamente, sciogliersi, disfarsi in una poltiglia.
Lo stato di rilassamento durò poco, ad esso subentrò senza preavviso un’eccitazione innaturale, sovrannaturale, le cellule del mio corpo mi prendevano a calci all’unisono, stridevano, strisciavano, si prendevano gioco di me.
Me, quale me, le mie cellule sono me, il mio corpo era ed è me, le mie mani sono me, i miei occhi iniettati di rosso erano me.
Uscì dalla stanza forsennato, mi diressi verso il palco e arraffai il tenore che giaceva scintillando di impazienza.
Cominciai a soffiare in preda a un demone impalpabile ma solido come quel muro di suono che ora usciva dall’ottone del mio sassofono.
La sala era rumorosa, voci, tintinnare di bicchieri, risate, risolini, sghignazzi. I miei musicisti erano in mezzo a fare gli splendidi con qualche bella ragazza, aspirante scrittrice di noir filosofici, sorseggiando lascivi e ammiccando coscienti del fascino della divisa.
La divisa del musicista in quegli anni era completo nero con cravatta dello stesso colore, camicia bianca appena stirata. Questo la prima sera. Le due settimane successive lo stesso abbigliamento si intrideva di sudore, fumo, qualche sfortunata macchia di vino ed umori vari. Quando non potevamo più nascondere lo sporco dei colletti un tempo immacolati, una lavanderia a gettoni ci restituiva l’eleganza perduta.

Appena mi videro sul palco, spingendo a tutto gas il mio legno, si guardarono attoniti, anche se io non li vidi guardarsi attoniti, posso solo immaginarmelo lo smarrimento che li colse in quell’attimo.
Ma erano giovani e attivi e li ritrovai in pochi secondi alle loro posizioni, Filmord al momento esatto colpì il piatto evidenziando il mio trillo, poi un secondo colpo, ora il rullante, ed ancora i piatti in un succedersi di squillanti battiti ben assestati.
Dedie non si fece cogliere impreparato, all’unisono seguì il tintinnare della batteria, quasi come stesse leggendo uno spartito che non c’era. Filmord pensava che Dedie potesse leggergli nel pensiero, non si capacitava come arrivasse sempre al momento giusto, pensava che potesse captare le sue onde celebrali, che il suo contrabbasso fosse un’antenna sintonizzata sul suo orologio interno.
Sembrava serio, sottolineo sembrava, con Filmord era difficile tracciare una linea tra il serio e lo scherzo, ma ripeteva così tanto le sue strampalate teorie che a volte ci credevi veramente alle cazzate che diceva…
Dan attendeva, lui era sempre circospetto, non si lanciava mai, ti guardava, osservava i tuoi movimenti, registrava la tua melodia, sapevi già che ad un certo punto ti avrebbe colpito con un pugno in pieno viso, un accordo sempre nuovo, poi un altro ad una distanza sconosciuta, poi ancora. Mi ricordava un rubinetto gocciolante mentre sei lì per prendere sonno, la prima goccia cade quando meno te l’aspetti, sai già ce ne sarà un altra ma non sai ancora quando, poi la terza , cerchi di contare ma, no, nessun ritmo riconoscibile, così fino alla decima, undicesima, dodice…poi gradualmente la frequenza aumenta, si instaura quello che pensi sia un regime stabile, ma dura poco, di nuovo irregolare e poi di nuovo stabile, ed allora ti arrendi e chiudi gli occhi.
I miei occhi erano chiusi sul palco, ma i miei polmoni non cessavano di soffiare aria dentro al sax, diventammo un orchestra di rubinetti gocciolanti, e nessuno lì sotto il palco ebbe il tempo di chiudere gli occhi.
Il sudore grondava come pioggia ai tropici, sentivo gli addominali tesi i bicipiti gonfi le dita veloci come sulla tastiera di una macchina da scrivere. Scrivevo note nella stanza ed i miei compagni le acchiappavano ancoravano alla batteria spostavano con un movimento di aria masticavano e rigurgitavano con un canto un lamento struggente ironico bestiale.
Le facce nella sala le vedevo a sprazzi, deformate dal mio delirio, guardavo il resto del gruppo ma non vedevo che mani alle prese con aria, e in un istante strumenti senza nessuno che li suonasse suonare assenti.
Ricordo che il turbinio durò a lungo, un sali e scendi lungo scale di umori, ricordo energia infinita e cedimenti di attimi e poi bam nero pesto…

Mi raccontarono il giorno dopo, io in preda a un diavolo che sputava note e ritmo forsennato, la band dietro a pestare più forte. Poi d’improvviso gli occhi sbarrati, l’ultimo sibilo, la nota più alta che mai proferì, il mio corpo per terra in un tonfo teatrale, e l’oblio, che dura da allora.